Alla maniera di…

Per chiarire subito: non sono contrario alle categorie. Sono contrario all’insegnamento delle categorie.
E’ impossibile parlare in poche lezioni di uno stile letterario, cinematografico o musicale, specie se così ampio da non esaurire una vita di studi, e pensare che questo possa essere recepito e riprodotto in un’improvvisazione, specie se di cinque-dieci minuti.
Sarebbe bello se un autore come Shakespeare, ad esempio, fosse fonte d’ispirazione per il nostro modo di improvvisare, se la profondità dei rapporti e dell’analisi sui personaggi potesse elevare di rango la nostra forma d’espressione preferita.

Ma non c’è tempo.

Per cui le categorie si riducono necessariamente a delle parodie. Il che porta a uno dei più squisiti paradossi del nostro mondo: l’improvvisazione ripetitiva.
In classe si insegnano alcuni ganci, a cui l’improvvisatore spaventato o insicuro può appendersi durante la scena, siano essi standard narrativi (brrr), oppure personaggi stereotipati, oppure semplici gag, di sicuro.
Di fatto poi il vero insegnamento della categoria non avviene in classe, ma tramite gli spettacoli. Che a loro volta copiano altri spettacoli, che avevano copiato altri spettacoli e così via. Probabilmente c’è una decina di match del 1989 da cui vengono tutte le improvvisazioni in categoria degli anni seguenti. Quindi a che serve insegnarle in classe?

Il risultato è garantito: il pubblico impazzisce nel vedere le parodie degli stili. Così come ama I Soliti Idioti.
E’ bene capire che si tratta però di una forma, non di un modo di improvvisare. Spesso sento dire: ”eh, ma era una Shakespeare e ha dato del lei tutto il tempo…”, senza nemmeno curarsi se la storia funzionava o meno. Oppure: ”ma non ci sono i poveri nella Soap”, eccetera. Vizi formali, non di sostanza.

Il problema principale è che un’iterazione di questo tipo di improvvisazione, e di messaggio, è una di quelle cose che ‘maleduca’ il pubblico. Che magari torna a vedere uno spettacolo, ma si aspetta sempre più la macchietta e sempre meno l’improvvisazione nata dall’ascolto. E gli improvvisatori sono ‘costretti’ ad abbassare il livello, perché “è il pubblico che lo chiede!”
L’ideale sarebbe metterne poche, un paio a serata, per evidenziare la potenza delle improvvisazioni ‘libere’, che spesso invece sono le peggiori di un Match o di un Imprò.

Le categorie non sono cattive. E’ che le dis(ins)egnano così.

Andando sul pratico, questi sono alcuni dei cliché più venutimi a noia di alcune categorie.

LE FINESTRE SUL CORTILE – Sceneggiata napoletana (o de Filippo, che poi è la stessa cosa)
Dopo un certo periodo di inutile ciarla, a caso un fenomeno apre una finestra dal bordo del palco, urlando: ”avete sentito?” e poi qualcosa riferito  al nulla appena visto. Un altro apre la finestra dirimpetto e urla a sua volta. Poi spariscono. Presto però totalizzano la scena, che muore agonizzando.

GOLLUM – William Shakespeare
E’ vero che in Shakespeare appaiono personaggi fantastici, misteriosi, demoniaci, soprattutto in tre opere. Non si sa chi abbia iniziato questo cliché invece, con un personaggio che assomiglia a Gollum dal Signore degli Anelli a fare la parte simil-Iago. Che non è bestiale, ma umanissimo. A meno che non stiamo parlando di Aladdin.

PROFUMI DI SICILIA – Luigi Pirandello
Il teatro di Luigi Pirandello è qualcosa di più che una parodia dei siciliani. Nelle improvvisazioni spesso le atmosfere borghesi del primo Novecento si fondono con Il Padrino e I Soprano. E il Boss delle Torte. Con gente che, peraltro, scarsamente mastica la lingua di Camilleri.

IL CORO DELL’ANTONIANO – Tragedia greca
Uno dei miei preferiti. Tre o quattro persone si mettono in fondo al palco. Fanno l’eco di alcune parole degli attori, oppure ordinano qualcosa ai personaggi. Nella tragedia greca, quella vera, il coro è a tutti gli effetti un personaggio, tra l’altro importante tramite tra la scena e il pubblico. Tant’è vero che stava davanti alla scena, non dietro.

IL CORO DELL’ANTONIANO/2 – Zecchino d’Oro
Ormai in disuso come categoria musicale, forse anche per il proliferare di canzoni con bambini stupidi (chissà perché quando facciamo i bambini li facciamo sempre stupidi…)(lo so, eh, era un chissà retorico, ne scriverò), che iniziano inevitabilmente con ”la mia mamma…” E per il Coro dell’Antoniano, notoriamente delle macchine da musica, perfettamente a ritmo e intonati, interpretati come mocciosi scaccolosi – c’è sempre uno che si scaccola – e piagnoni/dispettosi.

ORDUNQUE – William Shakespeare
Il linguaggio di Shakespeare, si sa, è aulico. Aulico, si sa, vuol dire che ci sono delle parole difficili. In Shakespeare, si sa, si dà del voi o del tu perché il lei non esiste in inglese. Ordunque, si sa, è la classica parola difficile, che nello stesso tempo ci fa pensare a che cazzo dire dopo.

DAITARN 3 – Cartoni animati giapponesi
Sta cambiando, perché, lentamente, sta cambiando la generazione media di improvvisatori. Fino a qualche anno fa pletore di nati tra la metà degli anni 60 e la metà bassa dei 70 proponeva esclusivamente parodie di cartoni coi robot. Robot che si montano e si smontano.
Ma gli anni ’90 che fine hanno fatto? Tutta l’anime rosa, e sportiva, che tanto riempiva Bimbumbam, dov’è? Dentro Voltron 5

RUM E COCA – Quentin Tarantino
Solo, senza rum. La categoria Tarantino si traduce nella testa dell’improvvisatore in ”finalmente posso dire le parolacce”. Sniffando a nastro. Il problema è che le parolacce si associano per una strana consecutio a personaggi che non ascoltano. E quindi la storia finisce là, o meglio quando finalmente qualcuno uccide tutti (anche se ce ne vuole perché un improvvisatore o improvvisatrice alfa si lasci ammazzare in scena). Non ho mai visto una bella improvvisazione in stile Quentin Tarantino.

ACAZZODICANE – Teatro dell’Assurdo
Come la Tarantino, anche questa categoria viene subito tradotta nella testa dell’improvvisatore. Stavolta con ”finalmente posso entrare e non ascoltare”. Spesso le categorie Assurde sono divertenti, da fare e da fruire, perché gli improvvisatori fanno cose a caso, che tanto è assurdo, va bene uguale. Sarebbe bello che anche il suggerimento dal pubblico servisse da spunto.

EKTORP – Ingmar Bergman
Una volta si faceva la Bergman, ma è da un po’ (per fortuna) che non si vede più. Il cliché in questione consisteva nel chiamare i personaggi come mobili Ikea. Spesso la protagonista femminile si chiamava Ikea essa medesima. Ovviamente la storia si basava su questo. E su tanto freddo che, lentamente, entrava. Perché Bergman è lento.

Ci sono altri cliché che avete notato? Cose nuove che avete però già visto troppe volte? Fatemelo sapere! Contribuiamo tutti a un’improvvisazione più improvvisata e meno ripetitiva!

25 Comments on “Alla maniera di…”

  1. Assolutamente inattaccabile.
    Aggiungo, dalla mia esperienza, le fantascienza che vanno in malora perchè ci vuole il robot, l’alieno, il teletrasporto, l’altro alieno, la scena che scimmiotta alien.

    Le horror con la testa sotto la maglia di un altro giocattore

    le Garcia Lorca col toro inferocito

    le Bukowsky che sono la festa della mignottitudine e del vomito

    Gli ermetici che sono una frase in 2 minuti e mezzo di tempo

    I futuristi che sono urlare onomatopee

    e la Senna che diventa un fiume di m€rd in cui annegare nel decadentismo francese?

    La cosa tremenda è che questi clichè ti entrano dentro, perchè poi chi li applica fa anche la figura del figo.
    O, peggio, se non segui questi standard hai sbagliato.
    Ho una battaglia aperta con le Garcia Lorca fin dal mio secondo anno di match. Perchè quelle che si vedono sul palco non centrano una cippa con Garcia Lorca.

    • quanta amara verità… anche se, devo ammetterlo, in qualche clichè ci sono caduto (e potrei ricaderci) anch’io… Però ho sempre desiderato vedere altro, scoprire altre sfumature, provare delle improvvisazioni in cui non si debba necessariamente far ridere, ma si potrebbero toccare anche altre corde.
      Personalmente non ho mai amato molto i “miti del pubblico”, quelli che, a sentire i racconti di chi c’era, “quando aprono bocca viene giù il teatro”, che poi sono quelli che fanno sempre le stesse cose.
      Anch’io ho il chiodo fisso della Garcia Lorca, che non c’entra una mazza con quanto si vede sul palco, di solito un tipo che parlas con la esses finales y dise que nell’arenas c’è un toreros…
      però devo ammettere che nella mia vita ho visto almeno una volta due categorie fatte bene: una pirandello al barrios, se non ricordo male con fida, noli, gallina, lo coco, e una tarantino al mondiale 2005 in belgio, italia-quebec… e bhè… quando c’è in gioco il quebec tira fuori il meglio anche dall’altra squadra.

  2. “questo tipo di improvvisazione, e di messaggio, è una di quelle cose che ‘maleduca’ il pubblico”.

    Questo è il punto nodale.

    Proposta per un prossimo post:
    titolo “se il pubblico vuole un’ora di fiha, noi gli si dà un’ora di fiha”
    sottotitolo: “l’improvvisazione teatrale, tra pedagogia dello spettatore e piaggeria”

  3. Categoria western: immancabile palla di sterpaglia che rotola dappertutto, duello al rallenty (mai visto un duello al rallenty in un film western), becchino che prende le misure, bicchiere fatto scivolare sul bancone del saloon che non viene intercettato.

  4. La verità è che l’80% delle categorie le si fanno perché gli improvvisatori non sono capaci di improvvisare e allora le si usano per tenere in piedi spettacoli che altrimenti farebbero cagare.

    Le si insegnano perché tutti dobbiamo mangiare e ora che ho finito di insegnare le categorie mi sono sfangato 10-15 lezioni dove, in assenza delle categorie, non avrei saputo cosa dire agli allievi e come giustificare le quote che pagano.

    Non si spronano i nuovi improvvisatori a studiarsi da soli le categorie e a svlupparle perché tutta l’improvvisazione si regge sulle posizioni di rendita che uno si conquista nel corso degli anni. E nessuno vuole che uno appena arrivato mostri che i Re sono nudi.

    I nuovi improvvisatori non le studiano, perché se le volessero studiare non farebbero una scuola di improvvisazione, ma una di teatro. Poi, perché sbattersi quando con quattro stronzate chi decide se devo andare in scena è soddisfatto?

    Risultato: se dopo vent’anni l’improvvisazione in Italia non è considerata da nessuno fuori dalla cerchia di chi la pratica, bisognerebbe farsi una domanda e darsi una risposta.

    • è un commento spietato e lucido (come il protagonista di una western), che mi trova d’accordo. tra l’altro di un altro insegnante come me, suppongo.
      apre molti altri discorsi sulla scarsa considerazione dell’improvvisazione fuori dalla ‘cerchia’. ne ho dato un’altra interpretazione in un paio di post in questo blog.

      penso che esista qualche speranza però. il lavoro che personalmente cerco di fare con le nuove generazioni di allievi è in una direzione di maggiore consapevolezza di che cosa sia l’improvvisazione e che potenzialità abbia. nessuno può negare che le parodie facciano ridere, ma l’improvvisazione, basata su ascolto e fiducia e basta, riempie e soddisfa molto di più. sia l’allievo o l’improvvisatore sul palco, e questo si scopre abbastanza facilmente, sia il pubblico. Questo può sorprendere o spaventare, ma avviene.

  5. rum e coca è casa mia…o meglio era, perchè stò maturando 🙂
    volevo ringraziare per non avermi ancora dato lezioni sulle categorie!

  6. Tutto vero… ma la sceneggiata napoletana non è uguale alla De Filippo… per niente, ma gli improvvisatori pare non lo sappiano.. e forse neanche il pubblico.

  7. Discussione antica, faccenda stagnante, interessante. Meriterebbe grandi approfondimenti ma non è semplice. Condivido tanto di quello che è stato scritto, forse tutto. Sulle categorie personalmente ho iniziato “una battaglia” un poco di anni fa. I clichè sono tanti ma sono il punto d’appoggio per gli improvvisatori non pronti forse. Poveri noi quindi dato che sono tanti. Il punto è secondo me che gli improvvisatori italiani (e non solo) spesso non hanno idea di cosa sia uno spazio scenico o un testo. Gli manca sostanzialmente il rispetto per il teatro. Se non hai mai messo in scena nemmeno una volta un testo non puoi avere il rispetto per il rigore che ha il teatro, perché lo ha…poi possiamo dire tranquillamente che le regole sono state inventate da uomini e quindi sostituibili in qualunque momento…non sono le tavole di Mosè. A mio avviso non c’è niente di male a mettere in scena una parodia basta dire al pubblico che la stiamo facendo. Insomma se si improvvisa male nelle libere, ed io vorrei solo libere, secondo me è perché l’improvvisatore italiano (e non solo ripeto…) è mediamente…non preparato a sufficienza. ma è sempre un problema di testa, di manico direbbe qualcuno. In questi anni ho assistito a pensieri di allievi di vari giri che dimostrano come il punto focale sia l’impreparazione di alcuni docenti. C’è via d’uscita? Boh. Pensiero sull’ora di figa, dato che ero presente quando la massima venne regalata ai mortali. E’ uguale che dire “riempie il teatro quindi…” ma proprio uguale, con la differenza che chi parlò di figa non pensa di essere un santone. Dico la mia sulla categoria che più mi fa soffrire quando la vedo uccisa, la Western alla maniera di Sergio Leone…proprio mi lacrima il cuore. Ma l’improvvisazione italiana col match è nata e con l’Imprò prosegue quindi bisogna lavorare ancora ma il problema bènon sono i format, le categorie, le suggestioni, i suggerimenti del pubblico, i frizzi e i lazzi ma amio modo di vedere gli improvvisatori molto spesso improvvisati

  8. Concordo è un discorso antico, e, poichè spesso è intriso di una certa dose di rancori e di retropensieri, secondo me spesso affrontato con un taglio un po’ manicheo.

    Alcuni spunti di riflessione.

    – Cosa sono e a cosa servono le categorie?
    Le “categorie” sono uno strumento nelle mani dell’improvvisatore e che, in funzione dei format e degli intenti di chi è sul palco possono essere utilizzati con scopi diversi: dalla semplice caratterizzazione cronologica o di ambientazione di una storia, a particolari esigenze espressive. Il modo con cui molti di noi le hanno conosciute è stato attraverso il “Match di Improvvisazone Teatrale” o il suo (malriuscito? possiamo dirlo?) epigono “Imprò”. In particolare il match, che nasce come modalità “sperimentale” e di rottura del fare teatro. Non scordiamoci che il “Match” nasce nel contesto del Teatro Sperimentale di Montreal che si interrogava appunto sulla crisi del teatro tradizionale come strumento “popolare” e di relazione con il pubblico, e che le ha utilizzate anzitutto per fare una critica del teatro sul teatro. Fare a teatro una critica del modo in cui si interpreta Shakespeare, o degli schemi ripetitivi della commedia francese di fine secolo, è un modo (negli anni ’70 e ’80 soprattutto) per svecchiare il teatro. E’ un’espressione del postmodernismo, del superamento dei generi e della loro ibridazione.

    – Le “categorie” sono parodistiche?
    Si, lo scopo di una categoria è fare la parodia di un genere. Sarebbe del resto insensato pensare di scrivere quello che Shakespeare o Moliere non ha scritto. Ma una parodia non è necessariamente una buffonata. Può avere una funzione importante. In senso strutturalista di metterne a nudo i meccanismi intrinseci, di “sbugiardarne” il funzionamento. La parodia non è necessariamente una categoria negativa. Anzi, nella sua funzione satirica, è uno strumento di conoscenza, di didattica, di comunicazione ed educazione.

    – Tutti gli spettacoli di improvvisazione hanno bisogno di “categorie”?
    No, assolutamente. Oltre a quasi tutte le forme di long form “Non narrativa” (per intenderci, quelle tipo “Harold” e non i modelli che prendono invece un genere e ci costruiscono sopra un format, come improsoap, le sit com improvvisate,”family Drama”…) non si basano su categorie pre-costituite. E anche molte delle short form (cito fra i format milanesi Real Game, Catch Imprò, Gladiattori…) si basano sul concetto di game e non su quello di categorie in senso propriamente detto. Detto questo esistono degli spettacoli che per loro costituzione prevedono invece l’utilizzo di categorie. Il più noto è il match di improvvisazione teatrale (che in teoria prevede un mix di game, categorie e improvvisazioni libere), imprò (per lo meno per come era stato previsto inizialmente, ovvero come “surrogato” del match), “tutti contro tutti” (che addirittura sarebbe principalmente orientato ai generi “alla maniera di…”).

    – Le categorie degenerano necessariamente in Cliche?
    E’ vero che molto spesso tendono a degenerare in cose viste e riviste. La cosa che fa incazzare è che soprattutto un certo mondo “professionale” dell’improvvisazione tenda a questa coazione a ripetere. Che un allievo o un amatore di “aggrappi” ad uno schema o un pattern noto è tutto sommato un peccato veniale. Che ci siano fior fiore di volti noti che li ripropongano ad ogni piè sospinto è qualcosa che fa nel migliore dei casi sorridere di compassione. Non penso che però sia un male inevitabile. Soprattutto se nella “didattica delle categorie” si insegnasse non tanto un codice, ma uno sguardo. Cerco su questo punto di spiegarmi meglio dopo.

    – Le categorie devono avere necessariamente un approccio “normativo”? Per intenderci lavorare sulle categorie significa nececessariamente sanzionare chi “dà del lei” nella Shakespeare?
    No. Io penso che questo sia un retaggio di quando l’improvvisazione italiana si limitava allo studio di un particolare format, il “Match”, che prevedeva fra i suoi meccanismi di funzionamento una struttura di norme e sanzioni. In quel caso il “Patto narrativo” con il pubblico era l’esistenza di un insieme strutturato di “Norme”, potenzialmente conoscibili da parte del pubblico, sanzionate da un arbitro. Potrebbe esistere un approccio invece basato sulla riconoscibilità del genere o dell’autore. Vedendo l’esperienza teatrale come “esperienza di flusso” (Csíkszentmihályi, 1975), quali sono le opportunità e le condizioni che l’improvvisatore può sfruttare per evitare “break down” nell’interazione con il pubblico. Mi spiego meglio: che cos’è che spezza l’illusione di essere in un clima shakespiriano o in un film di Quentin Tarantino? E’ l’usare il lei? Sì, forse in alcuni casi lo è, ma non sempre… E che cosa mantiene “Il flusso”? L’usare le parolacce in Tarantino: si in alcuni casi aiuta, ma spesso invece infastidisce… Non so. La mia impressione è che possa esistere un’approccio non normativo al lavoro sulle categorie, ma che nel contempo “alleni” gli allievi in particolare a saperle utilizzare. PS. Sul “Lei” nella Shakespeare. Nell’inglese Elisabettiano – come in quello attuale – esistono per altro delle formule in terza persona che sono paragonabilissime al nostro Lei, soprattutto nei rapporti gerarchici con le figure autorevoli. Ad esempio è normale riferirsi a “Sua Maestà” utilizzando la terza persona (es. “Is Her Majesty ready?”) ed è una forma di particolare rispetto…

    – La didattica di una scuola di improvvisazione deve essere improntata alle “categorie”?
    Io penso che una delle “conquiste” dell’improvvisazione milanese sia stata quella di “Liberare” dallo studio pedissequo di modelli precostituiti di categorie il curriculum degli improvvisatori.
    Personalmente, avendo seguito un percorso più “matchistico” nella prima parte della mia frequentazione teatribù, ho vissuto con curiosità, passione e scoperta, nuovi approcci didattici e suggestioni provenienti da scuole non “Francofone” dell’improvvisazione.

    – Il lavoro sulle categorie deve essere quindi estraneo ad un percorso didattico di improvvisazione teatrale?
    No. Secondo me si rischia di buttare il bambino assieme con l’acqua calda.
    Mi spiego meglio.
    Così come trovo estremamente stimolante e “liberatorio” l’aver rivoluzionato la didattica dell’improvvisazione milanese ed avera… “de-matchizzata”, trovo nel contempo che negli stessi curricula manchi invece una preparazione specifica ai singoli format degli spettacoli. Il presupposto, implicito o esplicito,e che a mio avviso è errato, è che una formazione all’arte dell’improvvisazione nel suo complesso renda capaci di affrontare tutte le tipologie di spettacolo.
    Questo è palesemente falso. Ovviamente ci sono i talenti che per propria capacità e per i propri percorsi esterni riescono in questa impresa. Non trovo però che sia però una politica efficace a livello didattico generale.
    Ci sono “tecnicalities” relative ad ogni particolare format: dal modo e allo stile delle aperture, alla “velocità” dello spettacolo nel suo complesso, all’utilizzo di modalità drammaturgiche… Giocare un catch è diverso dal fare una impro soap, giocare un imprò o un real game è diverso da fare un harold. La cosa paradossale è che facciamo giocare prevalentemente forme di short form ai nostri improvvisatori (impro, real game, catch…) senza alcuna preparazione specifica.
    Fra le “Technicalities” di alcuni specifici spettacoli c’è anche l’apprendimento non tanto del contenuto specifico di una certa categoria, ma – come tentavi di dire prima. di una metodologia di approccio alle improvvisazioni “alla maniera di…” Questo è uno strumento che secondo me non diamo agli improvvisatori attuali e che invece andrebbe affrontato nella preparazione specifica di alcune tipologie di spettacolo.

    – La assenza di uno studio di categorie “codificate” favorisce il libero studio individuale delle categorie e l’assenza di Cliché?
    No, nella realtà – e soprattutto fra gli allievi e gli amatori – ne demoltiplica gli effetti. Lo dico con rammarico: molti improvvisatori non conoscono una pluralità di generi. Utilizzo la parola improvvisatori perchè – ahimè – non è un tema soltanto legato agli amatori o agli allievi, ma per mia esperienza diretta a gran parte del mondo professionale dell’Imprò italiana. L’effetto che vedo in molti spettacoli e che proprio perchè questo lavoro individuale manca (e mancano forse anche gli strumenti per affrontarlo) spesso il livello di clichè aumenta esponenzialmente. Non ci si riferisce neppure più al “codice” appreso a lezione. Ma a quello che ho visto fare l’ultima volta in cui è stata data quella categoria.
    Per ribadire ancora una volta il concetto: manca una didattica delle categorie che fornisca una serie di procedimenti analitici che consentano di tirar fuori dal proprio bagaglio culturale e di esperienza una serie di riflessioni interessanti ed originali sui generi. Altrimenti è una abdicazione al puro talento individuale. Che – diciamolo – spesso non ha neppure bisogno di venire a scuola di improvissazione.

    – Le Categorie sono un espediente per “far venir bene gli spettacoli” anche quando gli improvvisatori non sono bravissimi?
    Sì, obiettivamente lo sono. E’ più semplice aggrapparsi ad uno schema che costruire dal nulla. Varrebbe però la pena di considerare il tutto come una risorsa e non necessariamente come una pecca.
    Uno dei vantaggi del format “Match” è che essendo fortemente codificato ed “eterodiretto” dalla figura dell’arbitro, di fatto consentiva ad un ampio range di “livelli” di bravura, di partecipare a spettacoli complessivamente gradevoli.
    Noto che negli ultimi anni non è stato sempre così….
    Un’ampia partecipazione agli spettacoli ha spesso prodotto serate poco interassanti e riuscite. La scelta di puntare a meno date e ad una selezione maggiore dei talenti negli spettacoli importanti ha riportato qualità, ma nei fatti stiamo facendo “giocare” di meno le persone. Molti amatori ormai di fatto sono convocati soltanto in spettacoli di tipo “playground” e con un pubblico ristretto perchè negli spettacoli più importanti e complessi ci si affida ai talenti più evidenti.
    E’ una scelta. Ma il convesso, temo, a lungo andare è una potenziale riduzione del numero di amatori con il tempo, a meno di non aumentare fortemente la platea degli iscritti.
    Non ne faccio -ovviamente – un discorso di marketing, ma di sostenibilità (che è una cosa diversa).

    E su questo – come disse Forrest Gump – non ho altro da dire…. 🙂

  9. Mah, io non mi trovo d’accordo su molte cose che scrive, a me le categorie le hanno insegnate in un certo modo poi se si svacca la colpa è la nostra che vogliamo far ridere a tutti i costi. Certo è che meriterebbero molto più spazio all’interno del nostro iter formativo per essere capite bene e ben riprodotte. Ho visto due improvvisazioni rispettivamente alla maniera si cechov e pirandello, di tutto rispetto dove (nella seconda) nessuno parlava siciliano. Alle spalle avevano un laboratorio intensivo ad oc i cui frutti sono stati poi tangibili sul palco. Sarò campanilista ma nella mia scuola le categorie vengono insegnate a modo, sta a noi poi seguire sul palco ciò che ci è stato detto o svaccare per ottenere una risata (e lo dice uno che a volte nn riesce a trattenersi dal dire che il mignon è partito..)

  10. Condivido il progetto ambizioso di mettere in scena le categorie nel momento in cui si crede veramente di avere delle conoscenze approfondite delle stesse. Lo trovo rispettoso verso tutti, in primis verso se stessi.
    La mia piccola esperienza:
    Stage sulla “Almodovar” . Mi ha fatto rabbrividire nel momento in cui ho appreso che 1) il 40% circa dei partecipanti allo stage non aveva mai visto un film di Almodovar (ma? come?) 2) con grande giubilo del docente la sofferenza negli eccessi dei personaggi del regista si era trasformata nella sagra del frocione e gara di culi.
    Non che io sia una appassionata di Pedro, ma diamine.

  11. Parto da quella che, per me, è un’ovvietà: contenuti e modalità dell’insegnamento sono sempre in funzione dell’obiettivo da raggiungere.

    Se l’obiettivo è formare improvvisatori in grado di rappresentare in categoria scene che abbiano la stessa ‘qualità’ di un’equivalente scena su testo, l’insegnamento delle categorie (per come mediamente viene condotto) è inadeguato, perché è impossibile ottenere con poche ore di lavoro quanto dovrebbe essere frutto di mesi (in alcuni casi, anni) di lavoro.

    Se l’obiettivo è formare improvvisatori in grado di rappresentare in categoria scene che abbiano una (minima? parodistica? metteteci l’aggettivo che più vi piace…) riconoscibilità di genere per il pubblico, l’insegnamento per categorie è invece ben configurato.

    Ma Pubblico e Spettacolo sono davvero gli unici elementi che vanno tenuti in considerazione per delineare il nostro percorso didattico? In altri termini, è sufficiente chiederci se sia ‘meglio’ proporre al pubblico uno spettacolo artisticamente valido o uno farcito di parodie facilone?

    Io credo di no. E il terzo elemento mancante sono gli improvvisatori.

    Non dobbiamo dimenticare che chi va sul palco è stato innanzitutto allievo delle nostre scuole – il che significa che è stato ‘cliente’ fruitore di un servizio, esattamente come il pubblico che viene agli spettacoli.

    Ora, se il dilemma sull’ora di ‘fiha’ vale per il pubblico non è forse anche più vero per gli allievi?

    Apro una parentesi. Qualche mese fa un amico improvvisatore di una certa anzianità artistica (il nome rimarrà segreto! 😉 ) sosteneva che l’appeal dell’improvvisazione rispetto al teatro di testo risiede in un minore sforzo da sostenere per andare in scena. Lo slogan proposto era “Imprò = zero fatica”: nessun testo da imparare a memoria, nessuna prova da fare, ecc.

    Che il principio esposto sia giusto o sbagliato non importa. E’ purtroppo indubbio che per la maggioranza degli improvvisatori è proprio questo l’irresistibile fascino di questa modalità d’approccio al teatro: un percorso relativamente facile con cui garantirsi (un minimo) la soddisfazione di calcare un palco senza pagare un grande prezzo in termini di impegno.

    La gente, insomma, vuole divertirsi senza faticare troppo…

    Ognuno si chieda quanti, tra i detrattori dell’insegnamento ‘semplificato’, sarebbero davvero disposti a impegnarsi a fondo e a sudare il giusto numero di camicie per ottenere il risultato artistico che a parole desiderano? Pochi, temo. Una minoranza, sono certo.

    Tornando a bomba – posto di voler proporre spettacoli migliori – tutto si riduce alle seguenti alternative:

    – smettiamo insegnare le categorie (ma, per coerenza, anche di proporle sul palco)
    – continuiamo a proporre sul palco le categorie ma cerchiamo di alzare la qualità dell’insegnamento delle stesse, con sforzo maggiore sia per chi insegna che per chi impara

    Dovendo scegliere, per quale opterebbe la maggioranza?
    Io un’idea ce l’ho. Dopotutto, siamo italiani… 😉

  12. Buona sera a tutti,
    da soli due anni mi sono avvicinato all’improvvisazione. Dico “soli” perché ritengo fondamentale che per considerarsi improvvisatori ci sia bisogno di molto molto tempo. Intendo improvvisatori bravi. Ora che ho iniziato il terzo ho avuto anche la fortuna di poter far parte dei match amatori della mia città con buoni risultati e feedback da parte del pubblico. Nei soli 691 (perché quest’anno maledettamente è bisesto) in cui “professo” il credo dell’improvvisazione ho potuto però constatare che il cliché serve: è il maniglione antipanico verso la salvezza. Se la categoria brucia, si spinge, la porta suona e tutti iniziano a scappare. Ma come tale, il cliché va considerato. Tutti siamo a conoscenza della maniglia, tutti in scena e soprattutto chi entra non dovrebbe considerarla se non come “estrema ratio” se tutto va a puttane. Io ho visto e ho avuto la fortuna di fare delle Tarantino senza parolacce o pippozzi di “droga” (e ciò ci fa pensare sul perché spendere tanti soldi in alcool il sabato sera quando basterebbe autosomministrarsi un coca e rhum finto e via), Pirandello senza accenti e Shakespeare senza Golum. Devo dire che i nostri prof han sempre calcato la mano su evitare i cliché, sul vedere cose nuove, sull’auto-aggiornamento. Modificare le nuove improvvisazioni quindi è possibile, “SI,PUÒ…FARE!!!! (Beh qualche cliché ogni tanto me lo gioco). Il maniglione tutti sappiamo dov’è, sta a noi, se qualcuno lo apre aiutarlo a richiudere e fargli notare che sul palco non c’è nessun incendio.

  13. aggiungo un pensiero al volo che mi è venuto ieri mentre guidavo… x continuare la serie dei clichè che vedi e pensi “ma quando mai?”: categoria pupi siciliani: c’è sempre quello a cui si attorcigliano i fili! E lo dice anche! Ahi, quanto dolore a vedersi… se solo sapesse che i pupi possono pesare anche fino a 35 kg e sono manovrati per mezzo di aste metalliche…

  14. Improvviso da pochi mesi e non entro nel merito della tecnica (considerazioni importanti per chi insegna e pratica improvvisazione), ma lancio qualche domanda provocatoria:
    – Quale porzione del pubblico conosce Almodovar? E Pirandello? E Shakespeare?
    – Quale porzione del pubblico assiste a più di uno spettacolo improvvisato? Ha modo di rendersi conto del clichè?
    – Quale parte del pubblico si aspetta grande teatro, e quale invece vuole solo farsi due risate?

    • Renderei ancora più ampio il discorso, includendo gli stessi improvvisatori.
      Facevo parte di un gruppo di Imprò ormai scomparso.
      Ad un nazionale amatori il mio vecchio gruppo, tutto formato da attori amatoriali di teatro di lunga data mise in scena una Pirandello.
      Non perfetta certamente ma potente, pochi sorrisi e amari, ottima tenuta dei personaggi, ottimo utilizzo dello spazio, storia senza buchi, situazione tesa e drammatica.
      La cosa più simile a Pirandello che abbia mai visto.
      Venne stroncata con un bel 1 dal pubblico e nessun intervento da parte del notaio o del giudice di qualità.
      Orrido da vedere in una sala formata per tre quarti da presunti attori, per quanto improvvisatori.
      Siamo sinceri, è considerato importante il solo far ridere, ridere e ridere ancora.
      L’unico commento positivo e di delusione per il voto me lo rivolse un amico di Latina, che ci fosse un nesso col fatto che era un attore amatoriale di teatro?
      Oltre a questo, caro notaio o chi per te, mi chiedi una Pirandello?
      Abbi la decenza di conoscere quello che valuti.

  15. Prima di seguire il corso d’improvvisazione, seguivo gli spettacoli per andare a ridere. Credevo fosse solo un tipo di comicità. La prima volta che andai a vedere una long form rimasi un pò deluso perchè risi ben poco. Solo dopo 9 mesi di lezione riesco a capire che c’è molto più. Il pubblico va agli spettacoli d’improvvisazione per ridere o almeno la maggioranza. Per comprendere e apprezzare uno strato più profondo, occorre una conoscenza che l’utente medio non ha.

    La categorie sono nate per essere pantomima, altrimenti non si spiega la presenza del “Teatro Danza”. Nessuno si aspetta che gli improvvisatori si esibiscano in vere piroette e salti mortali. Il clichè in questo senso è parte integrante della pantomima per far facile presa sul pubblico.

    Creare questo genere di storie valide che non siano parodie è possibile ma è per pochi, e non è detto che il pubblico apprezzerà.

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