Georgia on my mind
Sono stato ad Atlanta settimana scorsa.
Con i soci di Teatribù Fabio Maccioni e Mico Pugliares ho partecipato a una serata di improvvisazione organizzata dal Basement Theatre, e al World Domination Theatersports Tournament, organizzato dal Dad’s Garage.
E’ stato interessante avere la possibilità di conoscere ancora un po’ l’improvvisazione americana, indubbio punto di riferimento teorico per l’improvvisazione europea.
La serata al Basement ha visto uno spettacolo nostro, The Stereotypes, in cui tre storie hanno per protagonista un personaggio nato da uno stereotipo del luogo che ci ospita. Una storia è in italiano, una in inglese, una nella lingua del posto (in questo caso senza parole). Atlanta ci ha donato un rapper sempre fatto e senza prospettive, una spogliarellista di 80 anni tatuata e a fine carriera, una casalinga viziata e viziosa, mantenuta dal marito… Ad Atlanta ci si diverte.
Il torneo invece consisteva in sfide di Theatersports, che è lo spettacolo di ‘shortform’ più rappresentato e conosciuto nel mondo anglofono e in Germania. Per chi non lo sapesse consiste in una serie di sfide tra due squadre, che quindi di rado giocano insieme, corrispondenti più o meno alle comparate del Match o alle sfide dell’Imprò. Ogni improvvisazione è votata da tre giudici, che danno punteggi da 1 a 5. In genere ogni giudice ha in carica un elemento dell’improvvisazione (narrative, entertainment, character – storia, divertimento, personaggi e interpretazione), ma in questo festival i giudici votavano ognuno per l’improvvisazione nel suo complesso.
Il Theatersports è uno spettacolo certamente interessante, con la grande pecca, a mio parere, di non prevedere improvvisazioni miste. Soprattutto in occasioni come questa si perde il gusto di improvvisare insieme a persone provenienti da altri continenti.
D’altra parte le improvvisazioni risentono positivamente dell’affiatamento di ogni compagnia. I ritmi interni sono molto buoni, e la fiducia tra gli improvvisatori è palpabile. Cosa che, ahimè, spesso non accade nelle improvvisazioni miste tra giocatori che si conoscono poco.
I gruppi invitati erano il Rapid Fire Theater di Edmonton, Sak di Orlando, ImprovBoston di indovinate dove, Curious Comedy di Portland (Oregon) e noi. Con ovviamente anche i padroni di casa.
Anche in quest’occasione ho visto confermata la realtà nordamericana, ovvero un’improvvisazione branca della ‘comedy’, generica definizione per tutto ciò che fa ridere e che fa entertainment. Siamo nella terra dell’intrattenimento, d’altronde, in cui il consumo di tutto deve essere immediato, semplice, e che possibilmente dia dipendenza. La parola fun, divertimento, rimbalza ovunque. Se uno spettacolo ha funzionato è perché è stato uno spettacolo funny, l’augurio pre-spettacolo è di have fun.
La differenza che si nota con l’improvvisazione italiana è, ancora una volta, la maggiore alfabetizzazione improvvisativa. La tecnica pura, insomma. Sì e…, generosità, apertura e mancanza di censure, nessuna ricerca dell’idea ‘geniale’ ma ascolto e reincorporazione. D’altro canto c’è una scarsa attenzione agli aspetti scenici, prossemici, teatrali, diremmo. E’ curioso come parlando con improvvisatori americani (non canadesi, per carità) tutti sentono l’esigenza, comune anche da noi, di migliorare la qualità degli spettacoli, senza sminuire le potenzialità comiche. Ma poi in scena conta il consumo, che fa PIL, e quindi l’importante è che il pubblico abbia provato del fun, facilmente misurabile in risate.
Un’altra differenza è che hanno degli spazi che noi sogniamo nelle notti più adolescenziali. Il Dad’s Garage, ad esempio, è un ex autorimessa con due palchi (platee da 150 e 50 posti), ufficio per 12 persone, tre camerini, un ingresso principale con bar, e un laboratorio di scenografia. Tutto nello stesso, enorme, spazio. E’ un ricordo fresco, ma farà male anche tra mesi.
Nel Theatersports si propongono temi o stili delle improvvisazioni, per cui abbiamo cercato di lavorare sul facile. Italiano, scene mute, tanta musica, anche inglese ma con inevitabile accento.
Memorabile per noi un’improvvisazione in grammelot americano, perfettamente compresa dal pubblico, o una in cui siamo stati invitati dal Rapid Fire a sostituirli in scena ogni volta che il presentatore suonava un campanello, proseguendo la storia con gli stessi personaggi che i tre canadesi interpretavano ‘all’americana’, ma con un’emotività ‘italiana’, ovviamente esagerata e caricata.
Insomma, vagonate di fun.
Improvvisare in un’altra lingua, anche e soprattutto se non la si conosce bene, è una cosa che consiglio a tutti!
Non era la prima volta che mi capitava e non è stata la più difficile, visto che la conoscenza dei compagni di palco aiuta a leggere le proposte, ma in ogni caso trovare un pubblico con cui fatichi a comunicare a parole è davvero stimolante.
Si impara a capire più velocemente quali sono i propri cliché, innanzitutto, e le battute o i personaggi o le situazioni che qui funzionano perché…funzionano qui! Ovvietà a parte, le differenze culturali possono essere una barriera notevole, ma il punto non dovrebbe essere cercare di far ridere o stupire un pubblico straniero con riferimenti alla loro cultura, o alla nostra.
La vera sfida, infatti, è la ricerca di un linguaggio il più possibile universale. Qualcosa che vada aldilà delle lingue nazionali e della cultura di un paese, che si avvicini a qualcosa di ancora più profondamente umano e condiviso. L’improvvisazione ha questa forza, questa difficile possibilità. Farsi linguaggio, alto, e potenzialmente universale, fatto di corpo e espressione, di parola come musica e non solo come pensiero. Di reazione spontanea e reincorporazione razionale, collettiva, di attori e pubblico.
Se vi fosse venuta voglia di avvicinarvi all’improvvisazione internazionale non perdetevi il festival di Berlino, la più grande manifestazione di questo genere in Europa. Dal 15 al 24 marzo. C’è la possibilità di vedere spettacoli e anche di fare workshop in inglese con improvvisatori di diverse nazionalità. Altrimenti date un’occhiata al post di qualche mese fa con i più importanti festival europei!
Have fun!
Un linguaggio non solo alto, ma altro. Comune, condiviso e universale. Che poi, forse, è il linguaggio delle emozioni.
Concordo in pieno sull’improvvisare in altre lingue. Mi è successo al Fringe ed è un’esperienza quasi catartica. Poi, mi capitò una Shakespeare-style da fare in inglese con un inglese… E farsi capire dal pubblico fu un successo semplicemente AWESOME! 😀
Il discorso sull’alfabetizzazione improvvisativa è sacrosanto. Magari se ne vedesse di più qui in Italia! Fortunatamente alcuni, anche nelle associazioni più importanti, stanno cominciando a muoversi in tal senso… speriamo !
Mentre sulla teatralità … non è che noi siamo un po’ troppo figli della commedia dell’arte?
O meglio, una delle idee più forti che mi sono fatto vedendo improvvisatori stranieri è che noi italiani riceviamo l’insegnamento di caricare eccessivamente la caratterizzazione fisica dei personaggi. Un personaggio che non ha una camminata ad O od un gancio di traino chiaro ed evidente non viene ritenuto efficace. Negli stage che ho fatto con insegnanti inglesi/canadesi la caratterizzazione fisica non è insegnata così forte. Importante, certo, ma sicuramente non così spinta.
Con tutto il rispetto che posso avere sulla commedia dell’arte, che adoro e che ho avuto la fortuna di provare, ma forse in questo dovremmo essere noi a rivedere qualcosa.
Ovviamente in my humble opinion 🙂
Il problema che riscontro andando all’estero, in tema di teatralità, è soprattutto legato alla coerenza delle intenzioni e, soprattutto, all’uso dello spazio.
Sono d’accordissimo sulla questione Commedia dell’Arte. Spesso confondiamo l’essere bravi attori con l’essere dei bravi mimi, perché questa è la nostra cultura. E’ anche vero che il metodo recitativo degli improvvisatori americani è figlio della recitazione cinematografica (anche il loro modo di raccontare viene da lì), oppure dalla standup (quindi niente corpo, solo bocca).
Personalmente sono un amante del gesto piccolo, della fisicità contenuta anziché esibita o esagerata. Quindi mi piace la recitazione americana. Però non mi piace che non si usi bene lo spazio scenico. Ovviamente è una cosa molto comune anche qua: la maggior parte delle volte si inizia un’improvvisazione in due, cercando di avvicinarsi il più possibile, toccandosi sulla spalla o sul braccio come a sostenersi vicendevolmente (gli attori, mica i personaggi!). E spesso, quando un’improvvisazione sta andando male, si comincia a cercare il bordo: o il fondo della scena oppure i lati del palco. Solo che poi ci sono i muri.
discorso interessante e quindi dico la mia.
Concordo con improvagante che la tecnica MEDIA (o MEDIANA) dell’improvvisazione americana sia superiore a quella italiana, fuor di dubbio. Questo è frutto, dal mio punto di vista, di un movimento in ritardo e di una non sufficiente preparazione di alcuni docenti.
Sull’argomento “recitazione e teatralità” si aprono discorsi ampi e, forse, da approfondire.
Dal mio punto di vista il problema non è se lo stile recitativo sia cinematografico o “teatrale” (discorso troppo complesso da sviluppare senza sentenziare) ma di efficacia e di coerenza di linguaggio. A gusto mio gli “americani” sono molto efficaci nel testo e nella tecnica improvvisativa ma mediamente molto scarsi nel resto e non parlo solo di uso dello spazio (concordo con l’opinione di improvagante) ma di intenzione e di credibilità. Raramente, anche nei cosiddetti guru ho visto personaggi “teatralmente” efficaci e credibili. Bisognerebbe forse chiarire/ci/mi una cosa: per gli americani è improv e/o comedy e la parola teatrale non è scritta da nessuna parte mi pare…(e il theatre sport?), in italia invece viene usata e quindi “teatrali” poi bisogna provare ad esserlo. Vengo alla commedia dell’arte: magari avessimo il problema di fare SOLO commedia dell’arte. Il problema è sempre lo stesso e cioè la limitata preparazione di alcuni docenti. Chi insegna che i personaggi si fanno alzando una spalla e modificando la voce non sta dicendo di fare Commedia dell’Arte ma che forse ha qualche limite.
Insomma, che ognuno improvvisi con lo stile che vuole l’importante è che lo si faccia bene. Il gusto personale conta fino ad un certo punto. Io non amo le “talking heads” in genere, mi sforzo di distinguere una comedy dal teatro comico ed ho chiaro in testa la differenza di tradizione tra noi e l’america. Mi piacerebbe un giorno vedere delle improvvisazioni scritte bene, lette bene, interpretate bene…fino ad ora non mi è mai accaduto…purtroppo nemmeno coi guru americani, che comunque restano il mio riferimento teorico.